L’equazione che spiega perché (forse) siamo soli nella via lattea
Potremmo non essere gli unici ma, a quanto pare, siamo sempre più soli. Sintesi spietata per una evidenza scientifica che potrebbe gettare un po’ di sconforto nell’entusiasmo della ricerca di vita che possa comunicare con noi, nella Via Lattea
A fare i conti, ci hanno pensato Robert J. Stern, professore di Geoscienze all’Università del Texas e Taras V. Gerya, professore di Geodinamica e Modellazione analitica dei processi geologici all’Eht di Zurigo, in un paper pubblicato su Nature’s Scientific reports. I due studiosi hanno, di fatto calcolato il numero di pianeti che possono creare le condizioni per lo sviluppo di una civiltà tecnologicamente avanzata, è uno dei fattori della celebre equazione di Drake, per stimare quanti siano i possibili interlocutori nella nostra galassia. Il risultato finale non è confortante.
Alla base del ragionamento c’è l’assunto, supportato da prove geologiche, che per l’evoluzione della vita come è accaduto sulla Terra (che è anche l’unico processo di questo tipo a noi noto) la tettonica a placche giochi un ruolo fondamentale. Gli oceani e la deriva dei continenti creerebbero condizioni ideali per passare da un pianeta abitato da forme di vita unicellulari o primitive, a organismi complessi che possono crescere in dimensioni e quindi sviluppare un’intelligenza. La tettonica a placche “rimescola” crosta terrestre e mantello, porta in superficie strati nascosti e sostanze inorganiche nutritive come il fosforo. Più nutrienti avrebbero, è una spiegazione, permesso al fitoplancton e alle alghe di prosperare e con la fotosintesi di dare il via a un nuovo evento di ossigenazione di acque e atmosfera. Gli animali, è noto, hanno bisogno di “bruciare” molto ossigeno perché l’evoluzione porti a crescere di dimensioni.
Ambienti favorevoli alla vita
E poi c’è il fattore “ambientale”. Il movimento delle placche tettoniche, dando origine a montagne ed ecosistemi molto più vari, con la collaborazione di grandi masse d’acqua (senza la quale, comunque, la vita come la conosciamo non esisterebbe), avrebbe in qualche modo creato condizioni più temperate e miti per lo sviluppo della vita. Gli eventi vulcanici e di modellazione dovuti allo scontro tra le masse, avrebbero sottoposto la fauna a una pressione, una spinta ad adattarsi e quindi evolvere, ma non estrema. La vita si è sviluppata grazie all’acqua, ma è sulla terraferma che si è potuta evolvere fino a generare una civiltà come la nostra. È in sintesi questa la storia di come la vita è diventata sempre più complessa nel periodo detto Neoproterozoico, tra un miliardo e 538,8 milioni di anni fa. Poi è venuto il Cambriano con la vera esplosione di forme e varietà. E poi i colli di bottiglia, le quattro grandi estinzioni al termine delle quali i mammiferi hanno iniziato a prosperare.
Sembra dunque che la tettonica a placche possa essere presa come elemento discriminante tra un pianeta che possiede le condizioni per l’evoluzione di forme di vita complesse. A queste seguirebbe il sorgere di una civiltà, di una tecnologia e, quindi, della capacità di farsi “sentire” da noi attraverso onde elettromagnetiche. O di captare i nostri messaggi inviati verso lo spazio profondo (e magari rispondere), come quello di Arecibo, il primo e più celebre, ideato da Carl Sagan e proprio da Frank Drake. Ed è qui che le cose si fanno un pochino deludenti.
Secondo Stern e Gerya, i pianeti con una tettonica a placche, infatti, non sono comuni. Un primo sguardo attorno a noi ci dà qualche indizio. La Terra è l’unico del Sistema solare a possedere questo meccanismo. Venere e Marte, gli unici due rocciosi all’interno della cosiddetta “fascia abitabile” (alla giusta distanza dal Sole per poter avere acqua liquida sulla superficie) posseggono una tettonica a singolo strato, così come la luna di Giove Io: posseggono vulcani, sono geologicamente attivi, ma niente deriva dei continenti.
L’equazione di Drake
L’astrofisico statunitense Frank Drake diede vita nel 1960 al programma Seti (Search for extra terrestrial intelligence) e mise a punto, com’è noto, l’equazione che porta il suo nome per quantificare quante dovrebbero essere le civiltà Acc (Active, communicative civilizations) nella nostra galassia a noi “coeve” e quindi in grado di comunicare. Fu scritta da Drake nel 1961 come stimolo a ragionare e investire sulla ricerca di segnali radio e sulla possibilità di ascoltare qualcosa di non naturale. Ed è piuttosto semplice:
N = R* ⋅ fp ⋅ ne ⋅ fl ⋅ fi ⋅ fc ⋅ L
N è il numero di civiltà, R* è il ritmo di stelle simili al Sole che si formano ogni anno nella Via Lattea, fp è il numero di stelle attorno alle quali orbitano pianeti, ne è il numero di pianeti per ciascun sistema solare che posseggono un ambiente idoneo alla vita, fl è la frazione di pianeti idonei sui quali la vita è nata, fi è la frazione di pianeti sui quali la vita ha sviluppato l’intelligenza, fc è la frazione di civiltà che sviluppano una tecnologia, come quella radio, in grado di “tradire” la loro esistenza, L è la durata media (in anni) in cui queste civiltà producono questi segnali.
Le soluzioni all’equazione di Drake, nel tempo, sono state molto diverse e contrastanti. Le stime passate erano, diciamo, piuttosto ottimistiche, con una presenza di civiltà tecnologicamente evolute nella nostra galassia comprese in una forbice molto ampia, da qualche centinaio a milioni. Si supponeva infatti che praticamente su qualsiasi pianeta che avesse sviluppato la vita, questa si sarebbe evoluta, con un tempo sufficiente, in una civiltà intelligente. È in questo fattore, fi, che Stern e Gerya sono intervenuti.
Lo hanno diviso in due termini: foc, la frazione di esopianeti abitabili con continenti e oceani significativi, e fpt, la frazione di pianeti che hanno avuto una tettonica a placche di lunga durata, almeno 500 milioni di anni (per dare all’evoluzione almeno il tempo che abbiamo avuto noi). Il calcolo porta a un numero sconfortante, compreso tra 0,003% e 0,2%. Portando la soluzione dell’equazione a ridefinire molto al ribasso le aspettative. Secondo gli autori, appena un terzo dei sistemi stellari possiede gli elementi per “plasmare” un pianeta con tettonica a placche, ma è necessario che resti geologicamente attivo per un tempo sufficiente e così anche per l’eventuale civiltà che lo abiti.
Quanto dura una civiltà?
E qui si inserisce la questione che già Carl Sagan aveva individuato come cruciale: il tempo. Pensarci mette le vertigini. La nostra specie ha appena 300.000 anni, la nostra civiltà circa 10.000. La capacità di trasmettere messaggi radio verso il Cosmo dura da circa un secolo e in questi cento anni, lo stesso progresso tecnologico ci ha messo in mano armi che ci hanno portato sull’orlo di una guerra nucleare che avrebbe potuto decimarci se non annichilirci. Il fattore “L” è dunque forse quello più misterioso di tutti perché contiene in sé la variabile meno deterministica, che ha a che fare con la società. E analizzando la storia umana possiamo renderci conto di quanto sia difficile calcolarne i destini, prevederne la strada.
Da qui nacque la domanda posta dallo stesso Carl Sagan e Iosif Shklovsky: “Le civiltà tecnologiche tendono a distruggere sé stesse poco dopo aver raggiunto la capacità di comunicazione radio interstellare?”, siamo noi un esempio di quello che potrebbe accadere altrove? Nella breve finestra tecnologica che abbiamo spalancato qualche decennio fa non abbiamo trovato ancora nulla. La risposta più ottimistica è che, siccome i messaggi, alla velocità della luce, impiegano anni o secoli a raggiungere le stelle più prossime, vale dunque la pena continuare a tentare, forse è davvero “solo” questione di tempo.
C’è, c’è stato, ci sarà qualcuno?
Ma potrebbe essere che nei decenni, secoli, si spera millenni, in cui terremo accesa la nostra luce, come un faro, per farci notare, e tendiamo i nostri orecchi tecnologici per ascoltare, non ci capiti di incontrare nessuno perché si tratta comunque di un battito di ciglia rispetto al solo periodo di esistenza della vita sulla Terra, che dura da miliardi di anni. E in questo “istante” quel qualcuno là fuori non è ancora nato, non si è ancora evoluto, oppure si è già estinto. La risposta al “paradosso” attribuito al fisico italiano Enrico Fermi, che detta in sintesi recita “Dove sono tutti quanti?”, potrebbe essere che probabilmente non ci sono, non ci sono ancora, o non ci sono più.
Copertina: Il radiotelescopio Karl G. Jansky Very Large Array della National Science Foundation - Credit: Bettymaya Foott
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