19.10.2023 Elio Grande

Learning to reject. Quando l’IA diventa saggia

Se non esiste un algoritmo che trovi soluzione a tutti i fortunali della vita, peggio sta messo l’indolente Adamo che all’indice teso del Signore giustappone la mano intorpidita: spesso non sa cos’è meglio per sé, o non ha la forza metterlo in pratica. Sperimentalmente, infatti, è noto che il “sistema 2” – il fittizio deuteragonista della mente a cui lo psicologo Daniel Kahneman, nel saggio Pensieri lenti e veloci del 2011, attribuisce capacità di calcolo formale e statistico – è talmente pigro da lasciare il passo al “sistema 1”, sempre all’erta e rapido nel mettere in ordine i fatti ma pieno di pregiudizi, pur consapevole (ammesso e non concesso) che il “sistema 1” potrebbe fare una mossa contro l’interesse dell’agente. Un tipico bias o pregiudizio cognitivo, ad esempio, è il WYSIATI, What You See Is All There Is. Molti imprenditori, inclini a un’illusione di controllo, falliscono per essersi concentrati troppo sulla propria abilità tralasciando il ruolo delle competenze altrui e della fortuna. Soluzione? Da una parte, l’esistenza conclamata di pregiudizi algoritmici – gli afroamericani ne sanno qualcosa – indica che affidarsi ad un “sistema 2” artificiale è poco utile e molto pericoloso. Dall’altra, di converso, controllare dall’esterno un sistema artificiale identificato col fulmineo “sistema 1” è per un utente umano – anzi, per il suo cervello – un problema intrattabile.


Ma l’Intelligenza Artificiale, come Socrate, sa di non sapere. Il learning to reject, una nuova tecnica di sospensione del giudizio incerto e rigetto del risultato sospetto, l’ha resa saggia. Immaginiamo un programmatore dal piglio severo, che sa che la sua macchina – magari una rete neurale in allenamento per classificare immagini di frutta per l’industria agroalimentare – produce mediamente risultati con accuratezza del 90%, cioè ogni cento casi commette in media dieci errori. Sapendo la giovane educanda un po’ immatura, per stuzzicarla le domanda: tu che produci questa accuratezza sui dati che ti vengono proposti, quanto invece sei sicura di te stessa? Quanta fiducia hai in te? Notoriamente, infatti, è meglio non credersi più competenti di quel che si è. La macchina risponde fornendo una misura di confidence. Per esempio, ha detto che quanto esaminato è l’immagine di una mela, dove “mela” è l’etichetta-target dell’apprendimento, e sostiene di essere sicura di sé, nell’affermarlo, al 95%. Ma il maestro, che conosce la spavalderia dell’alunna, coglie un sorrisetto di troppo. Preso dal dubbio, domanda ancora: sei proprio sicura di avermi appena detto la verità? Redarguita, la rete neurale fa un passo indietro. A dire il vero no, risponde ancora: è stata over-confident e ha peccato, perché in medio stat virtus. Il secondo step è dunque la calibrazione della funzione di confidenza: mai più dovrà succedere che la probabilità che l’output sia giusto, data una certa confidence del computer, risulti più bassa (sfacciataggine) o più alta (eccesso di modestia) della stessa sicurezza di sé.

Tuttavia, che senso avrebbe imparare a darsi un voto per poi continuare ad agire come se nulla fosse? Un po’ di contegno, insomma. Moderazione. A questo scopo, l’ultimo step è l’inserimento nel sistema di un discriminatore che rigetta le predizioni per cui la confidence è stata inferiore ad una certa soglia. All’occorrenza, quindi, fermerà tutto e chiederà aiuto, più o meno esplicitamente chiamando in causa l’utente. Stavolta, dovendosi soffermare su pochi casi, egli avrà le competenze per pronunciarsi, correggendo l’apprendimento del modello o ponderando autonomamente la decisione da prendere. Un’educazione riuscita, dunque: completa e morigerata. Non manca nemmeno l’epochè, la sospensione del giudizio. Se l’occhio deve l’acutezza alla corteccia cerebrale, o la mano è prensile grazie a un intricato sistema di ossa e tendini, per diventare virtuosi invece – scriveva Aristotele nell’Etica Nicomachea (1103a) – «quello che si deve fare quando si è appreso, facendolo, lo impariamo.» Se siamo coinvolti fino a tal punto, qualcosa lascia intendere che d’ora in poi gli appunti del lungo viaggio digitale li scriveremo insieme.

 

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