30.10.2024 Massimo Durante

Internet ci rende stupidi?

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“Potere computazionale” è un libro pubblicato da Massimo Durante nel 2019 con Meltemi. L’ipotesi avanzata dall’autore è che il nuovo petrolio non saranno i dati in sé stessi, ma il potere di utilizzare quei dati e immetterli in una struttura di calcolo

Il potere computazionale è produzione di sapere. È l’analisi di una metamorfosi tecnologica, sociale e politica: algoritmi, informazioni, verità, rischi di asimmetria nei rapporti e nella distribuzione di dati e diritti, nuovi squilibri nella relazione tra potere pubblico e iniziativa privata, tra soggetti pubblici e individui privati. Uno dei capitoli, il terzo, è dedicato al rapporto tra intelligenza artificiale e intelligenza umana. Si apre con un paragrafo – “Lo studiolo di Faust” – in cui si spiega perché intelligenza artificiale e umana sono destinate ad allontanarsi. Sostanzialmente, perché l’IA servirà a modificare la realtà più che a comprenderla. I paragrafi successivi rispondono a quattro questioni molto affascinanti, che qui sintetizziamo. 1. Chi possiamo diventare? L’IA servirà alla realizzazione umana; 2. Cosa possiamo fare? Aumentare le nostre responsabilità; 3. Cosa possiamo conseguire? Essenzialmente migliorare le nostre prestazioni; 4. Come possiamo interagire tra noi e con il mondo? Questa è la domanda più delicata. Servirà trasparenza nei processi e nella discussione e spiegazione pubblica dei processi. In altre parole, servirà consapevolezza collettiva e più democrazia. Il capitolo si chiude con un’ultima questione. In che modo internet interviene su di noi, ci condiziona, ci cambia? Come incide sulla costruzione del senso, sulla memoria, l’attenzione, l’approfondimento? Quanto contano la quantità di risorse disponibili, le connessioni, l’assenza di permessi, la conoscenza pubblica. Insomma, internet ci rende intelligenti o stupidi? E qui a. diamo la risposta a uno stralcio di Massimo Durante, la conclusione del terzo capitolo. (CdM)

Una riconsiderazione attenta delle tesi di Carr e Weinberger, unita all’analisi di Barabási sulla disuguale distribuzione delle informazioni in rete, ci fa comprendere che tali tesi alimentano entrambe una diversa ipotesi, per cui Internet non ci rende né più stupidi né più intelligenti. Perché ciò possa avverarsi, in un senso o nell’altro, la piattaforma d’Internet dovrebbe essere l’unico medium che presiede alla distribuzione d’informazioni, alla comunicazione e alla formazione della conoscenza. Questo non è tuttora vero. 

Anche le generazioni più recenti sono esposte, almeno in parte, a fonti e canali di comunicazione e conoscenza differenti. Internet non esercita il suo impatto su una tabula rasa ma certamente concorre a formare l’ambiente in cui operiamo. Per questo il suo impatto non è né meramente deterministico (ci condiziona totalmente) né meramente strumentale (non ci condiziona affatto ma è solo uno strumento nelle nostre mani). Ecco in definitiva qual è la nostra ipotesi. 

Parliamo d’ipotesi, perché non disponiamo di sufficienti dati empirici per trasformarla in una tesi. Per semplicità proviamo a riassumerla in una breve formula: Internet rende più intelligenti gli intelligenti e più stupidi gli stupidi.

In tal senso, si può forse parlare di un “effetto di enfasi” della rete. Mi pare che questo sia ciò che in realtà Carr e Weinberger (e con loro molti altri) dicono da tempo implicitamente: chi ha buoni strumenti cognitivi, risorse intellettuali, un sufficiente grado di attenzione e curiosità tende a migliorare e arricchire la propria situazione di partenza per mezzo degli effetti di rete. Chi possiede queste caratteristiche solo in misura limitata avrà tendenza a peggiorare e impoverire ulteriormente la propria situazione di partenza come esito dei medesimi effetti di rete. 

Per tale motivo, si può dire che Internet enfatizzi le condizioni di partenza. È come se ogni nuotatore, per vincere una competizione, dovesse aumentare la frequenza delle proprie bracciate: chi possiede già elevate doti di resistenza ne sarà avvantaggiato, mentre gli altri rischieranno di essere sopraffatti e stroncati dal ritmo troppo intenso ed elevato.

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Laddove fosse verificato e provato, questo effetto di enfasi della rete solleverebbe un serio problema per la democrazia. Quale che sia la definizione o concezione della democrazia che intendiamo sposare, ritengo che la democrazia dovrebbe consentire a ciascun individuo di modificare le proprie condizioni di partenza, in particolare entro quel contesto online in cui si svolge ormai buona parte della nostra vita. Si tratta di aggiornare in chiave informazionale e cognitiva il tema già conosciuto della mobilità sociale, tanto verso l’alto quanto verso il basso. Chi versa in una situazione sfavorita deve poter mutare la propria condizione di partenza (verso l’alto), così come chi gode di una situazione favorita deve poter essere incitato a migliorare dal rischio di precipitare (verso il basso). L’immobilità sociale è in entrambi i casi un problema ma, certamente, l’immobilità sociale (informazionale e cognitiva) verso l’alto è un dato più visibile e preoccupante, che contraddice in radice l’ideale originario della rete, che era proprio quello di fornire maggiori opportunità a chi muoveva da condizioni di svantaggio. Non vi sarebbe pertanto tradimento più cocente e pericoloso di questo.

Se insistiamo su questo punto è perché tale considerazione si salda perfettamente con quanto avevamo osservato in relazione ai rischi e alle opportunità dell’intelligenza artificiale. Ora, possiamo dirlo tanto con riferimento all’intelligenza artificiale che all’intelligenza umana: il rischio (e l’opportunità) è che l’intelligenza, artificiale o umana, diventi il terreno privilegiato su cui si vincono le sfide dell’innovazione ma su cui allignano e prosperano anche la divisione e l’esclusione sociale, chiamando in causa ancora una volta la questione del potere. 

Ogniqualvolta sentiamo parlare di stupidità in rete o d’intelligenza della rete, dobbiamo capire che la posta in gioco non concerne soltanto le capacità cognitive degli utenti ma anche la mobilità sociale e, con essa, il rischio di divisione ed esclusione. Ogniqualvolta sentiamo parlare d’intelligenza artificiale o umana, dobbiamo comprendere che la posta in gioco non concerne soltanto la sfera di controllo, autonomia e autodeterminazione degli individui. Ne va anche dell’equità sociale che occorre conciliare con il processo di sviluppo e crescita delle attuali società dell’informazione.

 

 


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