Il mito del creativo
Egli è un creativo. Oppure: laboratorio di scrittura creativa. Accade spesso che delle parole più pronunciate non si conosca appieno il significato. Accade con le parole più importanti – bene, vero, giusto, bello: cosa vogliono dire? – e accade ancora con le parole più in voga
Coi tic verbali che ogni epoca porta in dote. Ed ecco quindi come fra millemila tic – non c’è dubbio – oggi spicchi creatività. Creatività sostantivo e poi creativo aggettivo (non di rado sostantivato). Tanto che siamo «così abituati a questa parola», scriveva già nel 1987 Allan Bloom, «che essa non ha su di noi più effetto della banale retorica del Quattro Luglio». Anche se, aggiungeva il filosofo, «la prima volta che fu usata dall’uomo aveva odore di empietà e di paradosso. Dio solo era stato chiamato creatore».
E si potrebbe dunque partire da qui. Dall’attimo prima che il lemma diventasse un tic verbale per domandarci cosa sia, in fondo, la creatività. Se intelligenza o una speciale forma di bizzarria. Si potrebbe fare tabula rasa dell’uso inflazionato della parola per capire chi sia davvero l’uomo nuovo che chiamiamo creativo. Se un iperdotato o un miracolato. Se un genio intelligente o un ispirato da forze superiori. O se forse, invece, sia più semplicemente un essere mitologico che intuisce la strada senza particolari capacità di calcolo o Q.I. Ipotesi, questa, non meno plausibile della prima senonché scuole di scrittura, manuali di creatività aziendale e persino i migliori designer italiani – ormai quarant’anni fa – non ci avessero detto l’esatto contrario. E cioè che «creatività non vuol dire improvvisazione senza metodo» ma buona materia grigia e ingegno aguzzo del progettista (Bruno Munari, “Da cosa nasce cosa”, 1981). E se la psicologia – figlia del Novecento come il design – non avesse cominciato, da par suo, a parlare di creatività in termini matematici.
Il creativo intelligente
Un vero guazzabuglio, si capisce, ruota intorno alla parola. E se per un verso il creativo è nipote del capellone, da un’altra prospettiva “creatività” è un concreto muscolo da allenare. Una facoltà misurabile dell’intelligenza umana, all’incirca come il Q.I. Ed è questa, si diceva, l’idea che ha preso piede nel secolo scorso. Quella del creativo intelligente figlio di un ecosistema misurato, misurabile, addirittura psicometrico. Perché è con lo sviluppo della psicologia come disciplina che se per un verso si escogitano scale d’intelligenza (dagli studi di Alfred Binet al termine Q.I. coniato da William Louis Stern), dall’altro la creatività diventa una categoria intellettuale.
Joy Paul Guilford, psicologo statunitense, attribuisce per primo, nel 1967, uno statuto di legittimità intellettiva al pensiero creativo. Il quale, scrive Guilford, è un “pensiero divergente” (l’espressione avrà successo). È una rotta mentale che diverge e non converge. Sinuosa, curiosa, abituata a partire dai dettagli (diabolici o divini chissà), per imboccare sentieri nuovi.
Un pensiero divergente che sbuca in curva, quindi, ma pur sempre un pensiero – pressoché sinonimo d’intelligenza – definito ancora “laterale”.
Per certi versi simile a quel che in greco antico si direbbe “multiforme” o “colorato” (poikilometis) ovvero sprezzante della sicurezza, capace di ribaltare i dati e mescolare le ipotesi, come teorizza il medico maltese Edward De Bono, fondatore del World Academy of New Thinking, e come comunemente si associa (per chi non ha studiato medicina) all’eroe omerico re di Itaca. L’Odisseo dalla “mente colorata” e creativa non meno che astuta. A tutti gli effetti intelligente e, aggiungiamo noi moderni, “divergente”.
Un archetipo imprescindibile, quello omerico, che fa luce su un punto: l’intelligenza è di tipo creativo – e dunque il creativo è intelligente – se, come nel caso di Odisseo, traccia nuove mappe, se circumnaviga, se esplora terre vergini o se dà colori nuovi a terre già arate. Ed è il presupposto, questo, non solo teorico ma esistenziale sulla base del quale creatività e intelligenza collimano.
Se ci chiediamo infatti chi siano o chi siano stati, anche solo nel passato recente, gli intelligenti più creativi, più divergenti, i nomi che vengono fuori – da Picasso a Steve Jobs – hanno tutti un fattore comune: l’avere inventato, a partire da un codice collaudato di comunicazione (informatico o artistico), mezzi e messaggi nuovi. Fattore vieppiù evidente, poi, se ci avviciniamo al campo scientifico. Dove l’originalità e il quoziente intellettivo si legano a doppio filo.
Procedendo per associazione di idee, per esempio, dalla mente colorata di Ulisse alla beautiful mind di John Nash, premio Nobel per l’Economia 1994 e studioso della Teoria dei giochi, creatività e intelligenza sono tutt’uno. Non conosciamo il Q.I. dell’eroe greco né quello del matematico, il cui metodo avrebbe rivoluzionato le mosse di una banale partita a scacchi e le analisi nel mercato azionario. E tuttavia sappiamo che, nonostante la schizofrenia paranoide, Nash imparò a leggere e a scrivere a quattro anni. Per arrivare a Princeton, dove compì i suoi studi di dottorato, in forza di un’unica frase nella lettera di presentazione: «Quest’uomo è un genio». Parola del rettore.
Pazzo, genio dei numeri, inventore creativo. E come lui tanti altri sulla cui biografia di creativi cervelloni si esercitano, persino retroattivamente, le definizioni di creatività e le tecniche psicologiche di misurazione dell’intelletto (pensiamo solo a Einstein portatore, secondo la vulgata, di un Q.I. compreso tra 160 e 180: livello genio. Einstein che ha inventato l’equazione più famosa al mondo, E=mc2, ma che pare non abbia mai misurato il suo quoziente intellettivo).
Creatività ispirata
Eppure il mondo non è iniziato nel Novecento. Perciò adesso – accantonando la psicologia e venendo all’altro capo del discorso – sempre a proposito di Einstein ricorderete il soprannome attribuitogli dalla governante quand’era lo studente dislessico che sappiamo. “Der Depperte”. Tradotto: lo stupido.
Einstein il genio, a guardare con stupore il cielo non ci arrivò come tutti da ragazzino. Ma da grande. Vitt ima di uno sviluppo lento che ne avrebbe procrastinato il senso di meraviglia proprio dell’infanzia e avrebbe fatto di lui un creatore di universi da adulto. Un adulto non misurabile, non classificabile.
E se dunque la coappartenenza di creatività e intelligenza è sì un fatto, a volte, ma mai un dogma, a maggior ragione si può ipotizzare che oltre agli ingegni esistano appunto gli inclassificabili. Che esistano per così dire gli ispirati. Che ci siano insomma gli ingegneri – per dirla con un’espressione cara a questa rivista – ma anche i poeti, in senso più o meno lato. E cioè gli spiriti tendenti alla meraviglia come Einstein, Benjamin Franklin e come quelli che, facendo un passo indietro – nei secoli e nei millenni – trovano un loro statuto filosofico e letterario. Anche perché, indietro nel tempo, creatività e intelligenza non sono siamesi. Categorie inscindibili o omozigoti.
Riavvolgendo il nastro della Storia, si diceva, prima che cominciassimo ad associare il creativo al fricchettone e persino prima che la parola “creatività” campeggiasse così spesso sulle nostre bocche, colui che creava era esattamente uno scandalo, proprio come ironizzava Allan Bloom. Il creativo prima del creativo – classiconi alla mano – non era infatti estraneo al mondo scandaloso del divino.
E se il matematico John Nash, stando alle congetture biografi che, divenne schizofrenico in seguito agli studi nel campo della meccanica quantistica, il genio – secondo Platone, nientemeno – sembrava invece partire da una condizione compromessa all’origine.
Ovvero dalla mania come causa e non come conseguenza; dall’incursione della follia divina che pone il mondo sott o la luce dell’entusiasmo. E poi, con Aristotele – che al genio assocerà la malinconia più che la mania – sotto la luce della meraviglia. Facoltà che lega a doppio filo il teorico, lo scienziato, il poeta più originale e persino Einstein al bambino nonché allo stupido. “Der Depperte”, neanche a dirlo.
Del resto, «essere un genio», scrive Walter Isaacson, caporedattore del “Time” e appassionato biografo di Einstein, Franklin, Da Vinci, Jobs, «è diverso dall’essere superintelligente». «Le persone intelligenti, spesso, non valgono molto. Ciò che conta è la capacità di applicare l’immaginazione a quasi ogni situazione. Ciò che conta è la creatività». Che a quanto pare dell’intelligenza è parente, sì, ma talvolta lontano o addirittura serpente. La creatività, metà umana metà divina, di cui poco sappiamo, per quanto la nominiamo, e che a volte convive con l’intelligenza. Ma solo per caso.
La variabile del lavoro
E tuttavia c’è un elemento, ancora, che mescola le carte e quel che sappiamo. Perché cosa sono intelligenza e creatività senza una forza in azione? Senza lavoro e potenza in atto? «Il genio è 1% inspiration e 99% perspiration», è il motto attribuito a Thomas Edison. 1% guizzo e tutto il resto olio di gomito, sudore, in una parola: lavoro. In assenza del quale l’intelligente, il creativo – e qualsivoglia ibrido – son ridotti a vulcani spenti. Ed ecco. Si è parlato di creativi e intelligenti. Di menti misurabili e forze superiori. Ma a ben vedere l’unica forza misurabile – magari non superiore – è una forza terra-terra. Ossia la fatica che produce energia. E per quanto il motto di Edison sia forse troppo manicheo (1% contro 99), scartabellando un po’, fa capolino una formula della genialità (salvo smentite scientifiche) che ha all’incirca la stessa base del motto. 1% ispirazione – illustra la ricetta – 29% ottima formazione e, non ultimo, 70% lavoro. È la soluzione della genialità contenuta nel “Cambridge Handbook of Expertise and Expert Performance” (2006), il manuale della perizia e dell’eccellenza presentato dalla rivista “New Scientist” al quale fa eco, poi, Eric Kandel della Columbia University con una ricerca da premio Nobel (correva l’anno 2000). Il neurologo austriaco evidenziava come la ripetizione continua, e a tratti ossessiva, di una stessa lezione irrobustisse le connessioni nervose della memoria sino a costituire una solida rete neurale. Ripetizione di uno spartito, inseguimento del passo di danza perfetto, o magari ossessione per la teoria scientifica della vita davano risultati quali, per esempio, i buchi neri per Stephen Hawking. Il cui genio sbocciò non prima dei venticinque anni, ricorderete, allorché la ripetizione del lavoro aveva compiuto la sua armonia. E della montagna di fatica si vedevano ormai solo tre cime: intelligenza, genio, creatività.
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