04.09.2023 Elio Grande

Navigare a vista, immersi nell'intelligenza artificiale

Né allocati tra le cose come l’acqua in un bicchiere, né tuttavia gettativi col compito di rifuggirne, oggigiorno esistiamo piuttosto incarnandoci, poggiando sulle punte, sul limite tra il nostro ed altri corpi tecnologici, eminentemente digitali. Sempre convivendovi, invero, perché nient’affatto ovvio è parlare di protesi o sistemi integrati. Una protesi dovrebbe almeno connettersi ad un corpo vivente alimentandosi direttamente dal magazzino energetico dell’organismo. Ma finanche un gioiello cibernetico come un pacemaker elabora segnali provenienti dal tessuto di conduzione del cuore, che tuttavia – a maggior ragione in questo caso – non fornisce direttamente la corrente elettrica necessaria a produrre gli impulsi che regolano il battito. Serve una fonte d’energia esterna, una batteria da sostituire ogni sei anni circa. Nondimeno, i protocolli di comunicazione delle ICT paiono superare l’impasse, disponendo – scrivono J.F. Kurose e K.W. Ross del MIT nel monumentale Computer Networking. A Top-Down Approach – il formato e l’ordine dei messaggi scambiati tra due o più entità, nonché le azioni da intraprendere in invio e ricezione. Un linguaggio comune, una piattaforma integrata, laddove diversa è la sorgente di alimentazione dei dispositivi.

Quando sul Web un computer client contatta un server remoto, il garbato e smanceroso protocollo TCP lo obbliga a procedere per “stretta di mano”, handshaking: il client bussa, si presenta, attende il turno, fa la richiesta e dopo aver ottenuta l’informazione fa la riverenza, chiude la porta e se ne va. Senza alcuno spessore: o dentro o fuori, o integrato o no, e il resto non esiste più. Tuttavia, presso le acque calme della piattezza gorgogliano e concertano agenti intelligenti: umani, fantasiosi e liberi; artificiali, rapidi e imprevedibili. Hybrid learning ed hybrid decision-making sono le più recenti frontiere della ricerca in Intelligenza Artificiale. Un esperto potrà, tra non molto, apprendere un task insieme con una rete neurale, inizialmente correggendola per poi pian piano confrontarvisi. Un utente finale, magari non così esperto, potrà decidere insieme alla sua macchina chiedendo spiegazioni convincenti. Monitorare e collaborare: il digitale parrebbe un compagno di viaggio – più o meno affidabile, è la lezione dell’AI Act emendato il 14 giugno 2023 dal Parlamento Europeo – intrecciato all’esistenza, un viatico per incamminarsi dentro l’ambiente, lungo gli ambienti.

Saranno relazioni navigate a vista, forse in sé né analogiche né digitali. Avranno mappatura dinamica. Sperimenteranno un proprio tempo, ulteriore e più intenso di quello necessario alla convergenza di un algoritmo. Un’analogia, in questo futuro, pare riportarci indietro, all’inizio. Settembre 1962, Rand Corporation: un giovane di nome Paul Baran redige un dossier intitolato On distributed communications networks e inventa il prototipo di Internet, ancora adesso parzialmente valido. Il sistema era distribuito come una rete da pesca. Nessun nodo ovvero nessuna stazione ricetrasmittente doveva essere un centro fissato, variando piuttosto d’importanza a seconda delle necessità. L’intera struttura era flessibile ed auto-rigenerante come una rete neuronale, a prova di attacco missilistico. Un algoritmo detto hot-potato routing, ansioso di togliersi di mano la patata bollente, cioè il messaggio, in base ai dati che quest’ultimo trasportava ne ottimizzava continuamente il percorso. Somiglia abbastanza? Se l’analogia coglie nel segno, le comunità ibride del domani avranno geometria variabile. Non un’infosfera iperstorica, bensì un complesso di cuciture tra mittenti e destinatari, umani e non umani, senza che i primi perdano valore ed i secondi ne acquistino in eccesso. Le connessioni faranno da trama, il tempo da ordito. Ed al tempo, inutile dire, è impossibile rinunciare.

 

Credits Copertina: freepick.com