10.09.2024 Romualdo Gianoli

Nanorobot e interfacce cerebrali: la rivoluzione del cervello connesso

laboratorio con computer e una persona che indossa un visore per la realtà virtuale, illustrazione di un cervello sovrapposta

Impiantare miliardi di nanorobot nel nostro cervello per dare agli esseri umani nuove e incredibili capacità. Qualcuno ci sta pensando realmente ed è convinto che questa futuristica svolta sia più vicina di quanto pensiamo

Negli anni ’40 il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, in uno dei suoi più straordinari racconti, immaginò un’allucinante e infinita biblioteca contenente un numero incredibilmente alto di libri scritti combinando in ogni modo possibile i simboli dell’alfabeto. In altre parole, la biblioteca immaginata da Borges (che non a caso la chiamò ‘di Babele’) conteneva tutto il sapere del mondo. Ma Borges, a quell’epoca, non poteva certo immaginare Internet, la cosa che forse più si avvicina alla sua biblioteca, né la semplicità e velocità con la quale oggi possiamo accedere al suo contenuto. Ma possiamo spingerci ancora oltre, immaginando che un giorno tutti noi potremmo accedere istantaneamente o, per meglio dire, alla velocità del pensiero a tutto il sapere del mondo o interconnetterci a tutte le altre menti del pianeta, formando un’enorme mente globale. È quello che ritiene possibile lo scienziato informatico americano e saggista, promotore dell’integrazione uomo-macchina, Ray Kurzweil secondo il quale entro il 2045 saremo in grado di padroneggiare una tecnologia che permetterà di innestare miliardi di nanobot nel nostro cervello che ci daranno nuove e straordinarie capacità. 

Tra queste, la possibilità di collegare il cervello a Internet per ottenere istantaneamente la risposta a qualunque domanda, la possibilità di immergerci in una sorprendente realtà virtuale o, addirittura, di condividere pensieri e sentimenti con tutti gli altri, azzerando le differenze dovute al diverso retroterra sociale o economico. In altre parole, la capacità, finalmente, di capirci davvero tutti.

Il modo per raggiungere questi risultati, secondo Kurzweil e gli altri scienziati che in tutto il mondo studiano come migliorare le capacità del cervello umano, è quello di usare le nanotecnologie cioè quelle tecnologie che permettono la manipolazione e la produzione di materiali e dispositivi con dimensioni pari a quelle atomiche o di piccoli gruppi di atomi. Il prefisso ‘nano’, infatti si riferisce al nanometro cioè il miliardesimo di metro, la scala dimensionale alla quale spesso i materiali mostrano proprietà fisiche e chimiche peculiari, dovute agli effetti quantistici che si manifestano solo a quelle dimensioni. Per avere un’idea di quanto siano piccole queste dimensioni, basti pensare che un nanometro è circa cinquantamila volte più piccolo del diametro di un capello umano. I campi di applicazione delle nanotecnologie sono molti e vanno dalla biologia all’elettronica, dall’ingegneria dei materiali alla robotica, solo per fare qualche esempio. E proprio quest’ultimo campo è quello al quale pensano i neuroscienziati quando parlano di un’interfaccia cervello-cloud, quella che chiamano, Brain-Cloud Interface (B-CI) e che potrebbe migliorare le nostre capacità cognitive, il modo in cui apprendiamo e connettere gli esseri umani come mai avvenuto prima.

I ricercatori immaginano nanobot incredibilmente piccoli (circa un centesimo della larghezza di un capello umano) che risiedano nel cervello dove monitorano ed elaborano costantemente il flusso di dati proveniente da un supercomputer basato su piattaforma cloud. Secondo Nuno R. B. Martins, neuroscienziato dell’università di Berkeley in California, si potrebbe impiantare un nanobot dentro ogni cellula cerebrale.

Ora, tenendo conto che un cervello umano medio contiene circa 86 miliardi di neuroni a cui vanno aggiunte le cellule gliali (che forniscono supporto chimico e fisico ai neuroni incluso il loro mantenimento in posizione) e le sinapsi (le ramificazioni con cui i neuroni comunicano trasmettendo rapidi impulsi elettrici) che ammontano a circa 7.000 per ogni neurone, si arriva alla straordinaria cifra di centinaia di miliardi di nanobot da introdurre in un cervello. Già, ma come?

Illustrazione di un nanorobot tra le cellule
Illustrazione di un nanorobot tra le cellule umane
Credits: European Pharmaceutical Review

I ricercatori valutano una serie di metodi che comprendono l’iniezione endovenosa per immetterli direttamente nel flusso sanguigno, l’iniezione transdermica o attraverso il naso per superare la barriera emato-encefalica che normalmente regola la chimica del nostro cervello proteggendolo dalle sostanze nocive. A quel punto, una volta introdotti nel corpo, i nanobot nuoterebbero attraverso la barriera emato-encefalica entrando nelle cellule cerebrali guidati da campi magnetici esterni che li posizionerebbero in punti ben precisi. Una volta dentro, i nanobot potrebbero utilizzare dei minuscoli nanosensori flessibili in ciascuna delle sinapsi per monitorare e interagire direttamente con le informazioni elaborate e memorizzate sotto forma di impulsi elettrici. I nanobot potrebbero anche utilizzare una rete in fibra ottica ad alta velocità per ricevere e trasmettere dati tra cervello e cloud e una eventuale riprogrammazione in tempo reale potrebbe fornire ai nanobot aggiornamenti software regolari, un po’ come facciamo con i nostri smartphone. Andando ancora oltre, una tale interfaccia B-CI potrebbe consentire all’umanità di utilizzare le informazioni in continua espansione presenti nel cloud per dar vita a una sorta di ‘supercervello globale’, come già ipotizzato nello studio Human Brain/Cloud Interface, pubblicato nel 2019 sulla rivista Frontiers in Neuroscience. Ne risulterebbe una mente collettiva costituita da una rete di cervelli umani interconnessa all’Intelligenza Artificiale. Fantascienza? Fino a un certo punto.
Non dimentichiamo che all’inizio di quest’anno Neuralink, la società di neurotecnologie di Elon Musk, ha installato con successo il suo primo impianto cerebrale su un essere umano. Si tratta proprio di una Brain-Computer Interface costituita da un chip delle dimensioni di una moneta che registra l’attività neurale attraverso 1024 elettrodi distribuiti su 64 fili, ciascuno dei quali più sottile di un capello umano, che comunica in maniera wireless e questa è la grande novità introdotta per la prima volta da Musk. Il risultato è arrivato nell’ambito di una sperimentazione clinica rivolta a soggetti giovani affetti da tetraplegia (la paralisi di tutti gli arti del corpo) dovuta alla lesione del midollo spinale cervicale o alla sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Noland Arbaugh, questo il nome del primo paziente, alla fine di agosto in un lungo post su X ha scritto che sta lavorando sull’utilizzo di diverse parti del corpo e movimenti. “Sto anche facendo molto lavoro con la scrittura a mano”. Ma si spinge anche oltre quando aggiunge:

“Attualmente sto imparando il francese e il giapponese studiando per circa tre ore al giorno, usando alcune risorse diverse. Ho anche deciso di reimparare la mia matematica da zero in preparazione del ritorno a scuola un giorno e spero nella mia alma mater perché non vorrei altro che portare a termine la mia laurea”.

Non male come primo tentativo. Dunque, proprio il settore medico, al momento, sembra quello più promettente per le applicazioni della nanorobotica al corpo umano ma in futuro si potrebbero aprire ulteriori prospettive. Perseguire il monitoraggio del cervello tramite nanobot potrebbe, infatti, aiutare a risolvere alcuni gravi problemi di invecchiamento come la perdita delle sinapsi e il conseguente declino cognitivo tipico della malattia di Alzheimer. Allo stesso modo, Ray Kurzweil ritiene che i nanobot potrebbero un giorno essere addirittura in grado di riparare gli organi, fornendo così una soluzione concreta per aumentare la longevità umana. Sempre nel campo medico un recente sviluppo è molto promettente e riguarda proprio l’Italia. Il 6 settembre è stato ufficializzato il finanziamento da parte dello European Research Council (con 1,5 milioni di euro di fondi ERC Starting Grants) del progetto per lo sviluppo di I-BOT (Implantable microroBOT), la prima generazione di microrobot impiantabili e capaci di navigare in modo controllato e non invasivo nel corpo umano. Il progetto, coordinato da Veronica Iacovacci, ingegnera biomedica e ricercatrice all’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, partirà il primo gennaio 2025 e durerà cinque anni durante i quali, come spiega Iacovacci:

“analizzeremo alcuni casi di studio che spaziano dal trattamento di ulcere nel tratto gastro-intestinale, alla realizzazione di graft vascolari [innesti chirurgici utilizzati per riparare o sostituire una sezione danneggiata o malata di un vaso sanguigno - N.d.A.], fino a sistemi per il monitoraggio di lesioni tumorali”.

Insomma, con tutte queste opportunità che si prospettano, è il caso di dire che il futuro delle applicazioni della nano e microrobotica alla medicina è appena cominciato.

 

Credits copertina: Envato @DC_Studio

 


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