20.02.2023 Elio Grande

La transizione ontologica

Il cambiamento di un modo di produzione (leggi qui: dagli atomi ai bit) fa da asso-piglia-tutto, ricorda sempre Roberto Masiero, storico dell’architettura presso lo IUAV di Venezia e interprete della trasformazione digitale. Proprio tutto, ontologia compresa. E non gli si può dar torto. Ma in che direzione? Una cosa – una qualunque, come una mela o l’amore o il grigio dell’acciaio – deve per forza essere, non può sottrarsi. Almeno, così dicono. S’intende “essere” a vario titolo: esistere fisicamente o nella fantasia, essere identica a qualcos’altro, essere bella o brutta e così via. Si tratti di qualità, quantità o chi più ne ha più ne metta, poco importa: l’importante è che, più o meno, sia. «[…] Questa parola, “qualcosa” – racconta lo Straniero di Elea nel Sofista di Platone (237d) – la diciamo ogni volta in riferimento a qualcosa che è; dirla infatti da sola, come nuda e isolata da tutte le cose che sono, è impossibile; o no?». Impossibile, risponde Teeteto. O no? In quanto contraddittorio del possibile, “impossibile” sarebbe a rigore sinonimo di “necessario”. Ma alle parole, che si autoassolverebbero volentieri, domandiamo: con quale autorità dettate legge, cristallizzando l’ignoto nelle “cose”? “Impossibile”, diceva una battuta fulminea di Carmelo Bene, potrebbe anche voler dire: non sta nel possibile, ma aldilà.

Scrivendo venti righe di programma – alias, parole – un ragazzino oggigiorno modifica i parametri di un chip microcontroller collegato al suo PC portatile, alterando a vista d’occhio le reazioni del robot su cui la scheda è installata. Altro che “rei et intellectus”: impieghiamo tempo a parlar delle cose mentre queste provano a parlare con noi, invitandoci ad accettare fraintendimenti – ovvero guasti – e sciogliendo il binomio cibernetico di comunicazione e controllo. Una volta una pietra era sostanza, poi è diventata Dio (la pietra infinita, cantava Franco Battiato), mente, corpo, particella, onda, quanto, fatto ed infine oggi dato digitale. Insomma, a mo’ di ciocchi di legno lentamente scolpiti gli enti sarebbero diventati cose su misura, se non fosse che sul più bello il loro nucleo s’è rivelato instabile, perdendo pezzi a destra e a manca oppure ammassandosi in materia grezza su cui praticare attività estrattiva.

Ma allora quanto il digitale dev’essere “data driven”? Scrutando cosa vi sia nelle fessure tra un bit e l’altro, scopriamo che informazione e dati sono gemelli diversi. Tecnicamente l’informazione – che per un informatico è esattamente speculare all’entropia, non così per un filosofo - è il logaritmo negativo con base opportuna della misura di probabilità di un accadimento entro un set di possibilità. Tiriamo una moneta con una probabilità di ½ che venga fuori “testa” o “croce” e, scegliendo base 2, il logaritmo negativo di ½ sarà 1 bit di informazione. Il dato sarà la memorizzazione dell’accaduto, per esempio tramite la carica di un componente elettronico. Un dato è dunque storico, alfabetico, si rivolge all’indietro; l’informazione porta invece in sé un briciolo di avvenire, dove non tutto è scritto. Sul crinale stiamo noi, dinanzi a un futuro “impossibile”. Impossibile, già, perché alla fine è successo quel che non ci aspettavamo: la monetina è caduta dritta in piedi, perpendicolare al suolo. Un bit chiude un orizzonte, sbirciando però dentro le cose stesse che, come i pilastri viventi di Baudelaire, lasciano andare confuse parole. Porgiamo orecchio: tra un bit e l’altro non ci sono il vuoto piatto o la morte termica, ma un potenziale virtualmente – è questa la parola chiave – in atto. Coltivarlo, entrarci in relazione è, credo, la sfida dell’umanesimo digitale.

 

Credits Copertina: Joshua Sortino su Unsplash