07.11.2019 Niccolò Serri

I cellulari della mia vita. Intervista a Marco Minniti

Il cellulare è il vero totem tecnologico della nostra epoca. 

Da quando la Motorola ha introdotto il primo telefono portatile, la nostra comunicazione ha subito un’evoluzione drammatica, fino ad arrivare ai moderni smartphone, vere estensioni del nostro corpo. Come ha cambiato il nostro modo di comunicare la telefonia mobile?

È cambiato radicalmente e per spiegarglielo vorrei partire da un aneddoto: nel 1980 io ero un giovanissimo responsabile del Partito Comunista nella piana di Gioia Tauro. Una sera, dopo un’impegnativa campagna elettorale, dovevamo andare a cena con i compagni, tra cui il Segretario della sezione di Rosarno che si chiamava Giuseppe Valarioti. Alla fine non andai perché volevo tornare a casa. Il giorno dopo avevo intenzione di andare al mare: sono un apneista e mi volevo preparare. Arrivato a casa squillò il telefono fisso. Il Segretario della federazione del partito mi informava che Valarioti era stato ucciso in un attentato mafioso. Ho pensato spesso a questa vicenda: se ci fosse stato il cellulare, mi avrebbero informato già in macchina. Dà il senso della dilatazione del tempo anche nelle vicende più drammatiche, una dilatazione che oggi sarebbe inaccettabile. È questo il principale cambiamento che il telefono cellulare ha introdotto: ha contratto il tempo - il tempo del dolore come il tempo della felicità.

Tutto questo però ha un prezzo, perché il cellulare ci accompagna sempre, è diventato insieme un informatore e un guardiano. Ti informa sistematicamente, traducendo gli eventi in tempo reale e dandoti il senso della loro assoluta contemporaneità, ma controlla anche il tuo tempo e lo scandisce. L’unico momento di non sincronia, almeno per me, è quando vado a fare apnea. La tecnica d’immersione è ormai un riflesso condizionato e in acqua posso pensare liberamente, mi dà un senso di assoluta libertà. Il rapporto con il cellulare diventa meno ossessionante ed è come se si aprisse una finestra del mio cervello.

Come è cambiato il suo rapporto con il telefonino dopo la sua esperienza come Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio nel 1998, quando comincia ad affacciarsi ad un mondo, quello della difesa e dei servizi, dove la riservatezza diventa una questione molto importante?

L’approccio del mondo dell’intelligence alle nuove tecnologie ti porta ad essere meno predisposto a pensare all’evoluzione senza limite di questi oggetti. Ti spinge invece a pensare agli elementi di vulnerabilità del sistema. Per me Il salto di qualità nel rapporto con il cellulare è stato notevole, sia nella pratica quotidiana, dove le comunicazioni diventavano ravvicinatissime, sia dal punto di vista strategico: con l’avvento della telefonia mobile eri sempre portato a pensare a come coprire quelle comunicazioni e renderle meno vulnerabili agli attacchi di altri. Già allora era cominciata la corsa ad una strumentazione sempre più veloce e contemporaneamente più sicura. Ognuno pensava di essere al riparo. Con il senno di poi, ogni telefonino aveva in sé una falla, e il principio fondamentale era sempre quello di avere una gestione mista del portatile. Lo potevi usare per trasmettere un warning, ma tutte le comunicazioni venivano lasciate al contatto fisico. Il cellulare era già ai tempi indispensabile, con il principio però di comandare lo strumento, mai di farsi comandare.

Ventuno anni fa il mio approccio al mondo dell’intelligence non fu semplicissimo. Io sono stato il primo ex comunista ad avere la delega ai servizi, cosa che all’epoca apparve ancora più delicata che affidare ad un ex comunista la carica di Primo Ministro. C’erano profonde differenze culturali, ideologiche, ma anche generazionali. Ricordo ancora come nel 1998 uno degli elementi fondamentali della sicurezza delle informazioni era il controllo delle cabine telefoniche. Per avere una copertura piena di tutte le possibilità di comunicazione bisognava monitorarle, perché le telefonate più delicate avvenivano proprio attraverso le cabine telefoniche.

Si ricorda il suo primo telefonino?

Ricordo che alla Presidenza del Consiglio ricevemmo per primi il cellulare a conchiglia che si chiudeva, lo StarTac della Motorola. Nel mondo dei servizi c’era un personaggio che nelle nuove tecnologie ed in particolari nei telefonini trovava una sorta di ragione di vita: il Presidente Cossiga, con il quale si faceva a gara su chi aveva il telefonino più moderno. Naturalmente Cossiga aveva l’ambizione e spesso riusciva ad averlo prima di chiunque. Ogni tanto mi invitava a casa sua e mi faceva trovare, vicino al posto che mi era stato assegnato per la colazione, l’ultimo modello di telefonino di cui lui era orgogliosissimo. Era un gioco che si ripeteva nel tempo. Cossiga amava telefonare alle sei del mattino per commentare la lettura dei giornali. All’inizio le telefonate le passava il centralino di Palazzo Chigi. Il cambiamento fu molto repentino. Appena nominato Sottosegretario, mi diedero un telefono fisso, il cosiddetto ‘telefono rosso’ - che rosso non era ma serviva per la comunicazione di eventuali emergenze. In breve tempo fu rimpiazzato dal cellulare, prima per le chiamate vocali, poi, sempre di più, per lo scambio di messaggi. Gli SMS consentivano velocità di comunicazione, e soprattutto davano l’idea di avere maggiore protezione e copertura.

Prendiamo la prospettiva opposta. Numerosi psicologi sottolineano oggi come il cellulare crei meccanismi di dipendenza. Allo stesso tempo, il demone della rintracciabilità ci costringe ad essere costantemente reperibili. Il cellulare è mai diventato una fonte di ansia per lei?

Esistevano sicuramente considerazioni di sicurezza: mano a mano che si evolvevano le capacità dei cellulari, io venivo periodicamente aggiornato su quello che dovevo e non dovevo fare. Una delle prime cose che mi hanno spiegato è stata quella di non attivare mai la geo-localizzazione, una delle funzioni principali per cui adesso gli smartphone vengono utilizzati. La seconda è stata quella di non accedere mai a connessioni wifi che non fossero controllate, perché potevano trasformarsi in una potenziale breccia.

I meccanismi di dipendenza dal cellulare sono evidenti, è un’estensione tecnologica che non ti lascia mai veramente solo. Io non ho mai sviluppato un’eccessiva sofferenza rispetto a tutto ciò. Ho sempre avuto l’ambizione, forse l’illusione, di poter controllare lo strumento. Le faccio un esempio: diversi anni fa, ho preso la casa del guardiano del faro di Capo Spartivento, in Calabria. È un luogo riparato naturalmente, dove anche il migliore dei telefonini non prende. Li hai il senso dell’assoluta dualità della tecnologia: da un lato il cellulare, ultimo ritrovato della modernità completamente inservibile, dall’altro, la luce di un faro per guidare i naviganti, una tecnologia arcaica che però continua a svolgere la propria funzione. Siamo diventati dipendenti a livello sociale da una tecnologia che è anche molto fragile, ed il senso di questa assoluta fragilità diventa chiaro a Capo Spartivento. I moderni telefonini ci offrono l’accesso in tempo reale ad una grande sequenza di informazioni, ma questo accesso può venire meno in qualsiasi momento. Il problema diventa quindi gestire la dipendenza dal cellulare e l’ansia che questa comporta, senza rinunciare ad utilizzare le nuove tecnologie.

Che modello di cellulare ha oggi?

Oggi ho un iPhone, che tra l’altro ho acquistato poche settimane fa. Dopo aver finito il lavoro per il Governo avevo ripreso il mio vecchio telefono, ma lo stress del tempo si è fatto subito sentire. Praticamente scriveva i messaggi da solo, con il rischio di effetti indesiderati. Ho dovuto cambiarlo.

Marco Minniti Politico italiano, ministro dell'interno nel governo Gentiloni. È stato dirigente dei Democratici di Sinistra, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio (governo D'Alema), sottosegretario al Ministero della difesa (governo Amato) e vice ministro dell'Interno (governo Prodi II), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai servizi segreti nel governo Letta e nel governo Renzi.