04.07.2024 Marco Ferrante

Appunti

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Continuiamo il racconto di una frontiera mutevole. Negli ultimi numeri ci siamo occupati di trasformazioni informatiche, dell’importanza del fattore umano, dei confini dell’intelligenza artificiale. 

Adesso tocca a rapidi, diseguali, incostanti appunti sul moderno. Il mondo cambia, in molte parti del globo si organizza una nuova società digitale con caratteristiche inedite. Poca privacy, alterazione della nozione del tempo (più disponibile eppure soggettivamente più contratto, iper-impiegato nell’assurda paura di perderlo), soglie di attenzione bassissime, moltissime informazioni orizzontali che convivono con la superficialità del sapere diffuso. Il surf wikipedista e la delega chatgippittista ormai dominanti. Quando Balzac avvia il progetto poi abbandonato di raccontare la sua battaglia napoleonica e in una lettera annuncia a Madame Hanska di aver scelto Essling a causa della sua assurda inutilità, non ha strumenti informatici per la contabilità dei reparti e dei morti, ma solo testimonianze, carta e memoria. Il tempo della preparazione è stato per secoli una misura della profondità.

Quel senso della misura è stato oltrepassato dalla sovracapacità produttiva dell’informazione, del sapere e della fabbrica di opinioni, quest’ultima divenuta ormai una derivazione imprevedibile di una specie di narcisismo della libertà che la tecnologia sociale ha incoraggiato e della quale si nutre chiassosamente. Con una conseguente messa in dubbio delle istituzioni, del sapere scientifico, della condivisione di fatti, nozioni, giudizi che erano stati alla base delle fortune del mondo classico.

Una grande confusione, un informe movimento che va da qualche parte ma non sappiamo dove. Sui caratteri della società digitale in cui siamo immersi, proviamo ad accostare punti di vista e suggestioni per uscire dalla frammentazione e dagli eccessi di soggettività.

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In questo numero le suggestioni e gli spunti si raccolgono attorno all’idea di moderno – senza pretese sistematiche. Che cosa sia è in parte un mistero definitorio, la parola ha molti significati e ugualmente la sua applicazione. («Hai detto modernissimo, come se moderno fosse il non plus ultra del complimento…» Yasmina Reza, “Arte”). Riguardo al nostro interesse specifico, viene utilizzato soprattutto con due significati. Originariamente – da modus – fu uno spazio identificativo nel tempo dato. Uno spazio intuitivo innanzitutto, che si concretizza in idee, movimenti, forme. Il secondo significato storico-filosofico definisce l’approccio alla realtà, una griglia, un sistema di regole basato sulla centralità dell’uomo e sul metodo scientifico.

Il Novecento è un secolo espressione del moderno sin dal principio, a partire da quei primi vent’anni psicanalitici, quantistici, cubisti, architettonici, tecnologici e scientisti. E così ha proseguito. Il Rapporto Beveridge e la nascita dello Stato sociale, gli antibiotici, l’ascesa di Musil, il Seagram Building, l’energia nucleare, la cagnetta Laika, l’omeopatia consumista dello shopping, il dilemma del prigioniero, Morgenstern e von Neumann, la perfezione degli oggetti industriali e l’aspirazione di un posto al sole del MoMA. Persino la barbarie meccanizzata delle dittature novecentesche sarebbe stata impossibile senza l’organizzazione, senza metodo.

A un certo punto il moderno viene sottoposto a una critica. Perché non ammette eccezioni, perché ha bisogno di tenere tutto dentro uno spirito generale, una visione, le cosiddette grandi narrazioni. Nasce il postmoderno inventato da Jean-François Lyotard e simbolicamente rappresentato da Robert Venturi che a casa di sua madre appende il Mao di Andy Warhol su una vecchia carta da parati.

Come residuo ossessivo della reductio ad unum modernista e novecentesca resta la visione del mondo liberale globalista (e la sua hubris dicono i detrattori), il desiderio di trasmettere il suo ordine e diffonderlo senza mediazioni: Organizzazione mondiale del Commercio per tutti, case da comprare senza capitale per tutti (base della crisi finanziaria del 2007, the big short), modelli di vita omologati, laicismo e secolarismo senza condizioni. Poche concessioni morali agli invidiosi sconfitti.

Ma il flusso forsennato della Storia, incurante dei tempi di pausa, impone un’accelerazione. Il progresso tecnologico, sfuggito al vecchio ordine, determina fatti e trasformazioni, cambia tutto, pone nuovi problemi e chiede soluzioni.

La tecnologia è neutra o ci cambierà definitivamente? C’è una mutazione antropologica definita dall’accelerazione tecnologica o non basterà un dispositivo telefonico portatile a scalfire la scorza multimillenaria dei Sapiens? Le democrazie sapranno resistere all’invadenza digitale? Sapremo ancora distinguere vero e falso, difenderci da calunnie globali, da insinuazioni indotte da macchine della propaganda al servizio di nuovi stregoni del potere contro i quali il nostro immaginario finora se l’era cavata con James Bond? Serpeggia molto pessimismo, incombe su uno strato più profondo di noi stessi e riguarda il tempo, il senso della morte, la sopravvivenza al posto della trascendenza. Il tabù della guerra. Questa condizione incombente porta una questione molto contingente e sperimentale: se saremo in grado di risolvere tutto questo senza aspettare un grande shock, un evento irreparabile. La fiducia nell’uomo dice di sì, perché non abbiamo mai avuto tanta consapevolezza della nostra forza e tanta energia disponibile in atto (e in prospettiva). Dobbiamo solo decidere come vanno governate. Possono soccorrerci le categorie del moderno per sistemare il disordine? Non tutti pensano che sia una buona idea ricostruire un mondo regolato da un patto fiduciario ideologicamente condiviso (per esempio sul contrasto alla pandemia ci siamo divisi). Ma individuare una nuova griglia concettuale almeno per capire il mondo che sta cambiando sarebbe già un buon modo per cominciare.