01.05.2023 Anna Giurickovic Dato

Tra rivoluzione digitale e filosofica

Il filosofo dell’era e dell’etica informatica ci conduce per mano sul filo di un ragionamento che, dall’ontologia classica, giunge sino a quella digitale. Oggi, conoscere significa capire come cambiare il mondo in meglio, a partire da una visione dinamica e dialettica della realtà, strutturata su relazioni, interazioni e informazioni di tipo sempre più “transdiegetico”. Noi stessi possiamo intervenire di continuo sulla realtà e sull’infosfera, passando dall’una all’altra in una interrelazione incessante, così come avviene nel metaverso.

Come interpretare la natura della realtà alla luce della trasformazione che il digitale comporta?

Quando si parla di natura della realtà, si possono intendere almeno due diverse concezioni: l’una induce a cercare di capire com'è il mondo di per sé, nella sua natura ultima, intrinseca, quello che Kant chiamava il noumeno, cioè l'essere in sé, indipendentemente da chi lo guarda; secondo un altro approccio, invece, non vi è modo di parlare della realtà indipendentemente dalla scienza, dal linguaggio, dalla modalità cognitiva che abbiamo, grazie alle conoscenze a nostra disposizione, da quelle matematiche a quelle del “senso comune”, insomma, da qualsiasi interfaccia culturale tra noi e la realtà. Allora, invece di parlare della natura ultima della realtà, preferisco parlare della natura ultima del modello della realtà. Non intendo parlare di quella che è la natura ultima della realtà dal punto di vista metafisico, perché secondo me è un lavoro impossibile, inutile, e lo ha detto bene Kant: possiamo cogliere solo il fenomeno, la nostra percezione della realtà, ma non saremo mai in grado di conoscere il noumeno, la realtà in sé.

Tra gli strumenti che abbiamo a disposizione per cercare di comprendere la realtà, che ruolo giocano la scienza e il senso comune?

Quando un uomo con una pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto. Questa bellissima battuta, tratta da “Per un pugno di dollari”, la fa il cattivo, Ramón, con il fucile in mano, a Clint Eastwood che, invece, ha una pistola. Sapete come va a finire? Vince Clint Eastwood. Quindi, anche se il senso comune potrebbe suggerirlo, non è vero che il fucile vinca sempre sulla pistola, dipende. Tuttavia, non bisogna pensare che la scienza abbia sempre ragione sul senso comune. A volte non hanno ragione né l’una né l’altro, ma ci sono ragioni per scegliere l'uno o l'altra e, soprattutto, per scegliere un modo di guardare al mondo piuttosto che un altro, a seconda del fine per il quale ci si sta ponendo una domanda. Ricordiamo la nave di Teseo, quella alla quale, pian piano, sono state sostituite le vecchie assi perché non si deteriorasse e potesse essere conservata nei secoli: resta comunque la stessa nave? È da sempre un dilemma in filosofia e, se tu non mi dici perché stai ponendo quella domanda, non c’è risposta. Immaginiamo che la domanda sia posta per ragioni di tassazione: sotto il profilo fiscale si tratta della stessa nave, non è che non paghi le tasse perché hai cambiato tutto, non è un trucco che si può usare per non pagare le tasse. Immaginiamo, invece, che la domanda sia stata fatta da un collezionista: in questo caso non si tratta della stessa nave, purché, se ho cambiato ogni pezzo, non vale più niente, la si può buttare, l'oggetto in questione è stato assolutamente alterato. Allora, che cos'è che fa della risposta un sì o un no? Cosa ne fa una risposta dalla quale possiamo capire qualcosa? Il fine per il quale la domanda è stata posta.

Quindi, la domanda implica la scelta di un determinato modello per interpretare i dati e, di conseguenza, la nostra realtà. Come impatta, in questo processo, l’informatica?

In informatica si parla di processo di astrazione o di nascondimento, perché vengono oscurate alcune informazioni invece di altre e questo serve a rendere alcune funzioni, taluni elementi del sistema sul quale stiamo lavorando, più visibili, più facilmente gestibili rispetto ad altri. Riduce un po' la complessità, ma ci permette di lavorare molto meglio. Immaginiamo di avere due motion detector, sensori di movimento, quegli oggetti che, quando ci si passa davanti, fanno sì che si accenda la luce. Ve ne sono di due tipi: uno coglie soltanto il movimento e l'altro coglie sia il movimento che le radiazioni infrarossi. Se in un giardino vi sono una pietra, un gatto e un ramo che si muove, il ramo che si muove è colto dal sensore che capta soltanto il movimento, mentre il gatto viene colto dall'altro sensore, che richiede la presenza di entrambe le condizioni: oltre a muoversi, “l’oggetto” deve anche essere una fonte di calore, emettere raggi infrarossi. La pietra, invece, non viene colta né dall’uno né dall’altro sensore. Quindi, seppure il giardino contiene sia la pietra, sia il gatto che il ramo, a seconda del livello di astrazione avremo una sua specifica rappresentazione. Ecco, allora, le nostre “interfacce cognitive”: le abbiamo nell’attività scientifica e in quella intuitiva, sono in tutto quello che culturalmente ci permette di guardare al mondo e cercare di interpretarlo.

Dunque, qual è il rapporto tra sistemi di dati e modelli interpretativi? Come, la filosofia (anzi, le filosofie) e la scienza (anzi, le scienze) possono aiutarci a comprenderlo?

La logica trascendentale di Kant guarda alle condizioni di possibilità della nostra descrizione del mondo, al modo in cui noi lo “modellizziamo” al fine di comprenderlo. È la struttura del modello che ci dà la possibilità di rappresentarlo. La logica dialettica hegeliana, invece, non si focalizza sulle condizioni che hanno reso possibile la nostra interpretazione dell'universo, ma si interroga sulle condizioni che rendono stabile questa rappresentazione. La differenza tra una logica trascendentale e una logica dialettica implica che quest’ultima sia molto più legata a tutti quei quei contesti in cui il concetto fondamentale non è quello di causa ed effetto, ma è quello di equilibrio e delle condizioni che lo mantengono. Sia Kant sia Hegel, sia le scienze fisiche sia le scienze dell'equilibrio (quindi economia, filosofia politica, legge) pensano che il mondo sia già lì, un sistema già dato e da interpretare. Diversa è la logica che, in inglese, è detta blueprint: quel modello, cioè, che modella qualcosa al fine di crearlo, non solo per rappresentarlo. Vi sono, quindi, tre logiche: una ci dice come ci siamo arrivati a quel sistema che sta lì (Kant), la seconda ci dice come quel sistema sta in equilibrio (Hegel), e la terza ci dice, se il sistema non c'è, come posso costruirlo.

Se la realtà è in continuo divenire, com’è possibile “intrappolarla” all’interno di modelli? Attraverso quali strumenti interpretativi è possibile comprendere qualcosa che sempre più velocemente muta, in un processo di innovazione dinamico e incessante?

Il concetto che fa la differenza non è più quello di limite, che è un concetto statico, ma è un concetto dinamico di costante operazione di scultura, di trasformazione degli oggetti della realtà che, di continuo, emergono e spariscono. Mi piace immaginare che siamo tutti come gocce d’acqua: gli oggetti che noi vediamo, gli enti, intesi come la penna, l'orologio, Luciano, in realtà vengono dall'acqua e tornano nell'acqua, esistono per un certo periodo come gocce ma la loro identità è legata a una trasformazione che li separa dal tutto e li riporta nel tutto. È necessario cogliere la dinamicità degli oggetti e comprendere che non sarebbero tali se non vi fosse dietro la trasformazione: essi sono ritagliati nello spazio, nel tempo, e l’azione stessa del “ritagliare” è dinamica, una continua e costante manipolazione e trasformazione di enti che durano un po’, poi spariscono. Ecco che, se questa è la visione, allora il modo di modellare il mondo deve essere formulato più in termini di relazioni e processi che di oggetti che poi vengono relazionati.

A questo punto il suggerimento è quello di cambiare il modo di guardare al sistema: l’osservazione non deve essere diretta alle cose, ma anzitutto alle interazioni, alle relazioni che danno vita, poi, alle cose.

La rotonda è un buon modo per immaginare che cosa siano gli oggetti. Non è che esistano le rotonde e poi arrivano le strade che le collegano, ma prima ci sono le strade e, dove le strade si incrociano, nasce una rotonda. Così, prima ci sono le relazioni e i processi e, lì dove le relazioni e i processi fanno nucleo, esistono Luciano, una casa, un mattone, un atomo, un orologio. Ecco, se si cominciasse a osservare il mondo non in termini di “primato delle cose”, ma in termini di “primato delle relazioni” - e quindi anche dei processi - si arriverebbe a interpretare le cose in maniera molto diversa. A questo punto, parlando di interazione, cioè spostando la nostra visione ontologica, il nostro modo di “modellizzare” il mondo si sposta dal primato delle cose, della sostanza, al primato della relazione, della funzione. Oggi, a una visione meccanica del mondo, si è sostituita una visione “a network” e la differenza tra le due è fondamentale: nel caso del meccanismo, vi sono tante parti a sé che, messe insieme, costituiscono un’altra cosa, come il motore, la struttura, le ruote, se assemblate fanno un’automobile; nel caso del network, invece, non esistono prima i nodi e poi le relazioni tra i nodi, ma esistono le relazioni che danno vita ai nodi. La nuova visione ci impone di pensare alla totalità del mondo come se fosse composto dalla totalità dei nodi e delle relazioni: i nodi non precedono né danno vita alle relazioni, ma è attraverso le relazioni che nascono e interagiscono.

E la tecnologia, la dimensione digitale, che progressi ci consente in questa direzione?

Un film contiene alcune informazioni che sono cosiddette “diegetiche” e altre che sono dette “non diegetiche”. Quando, per esempio, nel film Casablanca, parte la musica del pianoforte del bar, non la sentiamo soltanto noi, ma anche l’attrice: questo è un esempio di informazione diegetica. Non diegetica, invece, è l’informazione legata alla colonna sonora che gli attori, dentro il film, non sentono. Così un regista, inserendo nel film il rumore assordante di un aereo bimotore che non permette nemmeno di parlare, se non urlando nell’orecchio dell’altro, ci trasporta dentro, come se noi stessi spettatori fossimo con quei marines sugli elicotteri. Se un artista capisce che vi sono informazioni interne non disponibili all’esterno e informazioni esterno non disponibili all’interno, userà il diegetico e il non diegetico per trasportarci da fuori a dentro: è dai tempi di Shakespeare che si fa questo lavoro, ovvero utilizzare l’informazione interna per esternalizzarla e quella esterna per internalizzarla. Oggi, questo rapporto tra dentro e fuori e tra fuori e dentro è diventato interattivo, nel senso che sta un po’ a noi. Nel mondo digitale abbiamo il problema di capire cosa sia un oggetto e per noi: ormai è diventato naturale pensare che se possiamo interagire con qualcosa, quel qualcosa è reale, altrimenti no. La nuova ontologia che stiamo assorbendo insieme alla cultura digitale è un'ontologia dell'interazione, non della sostanza: quello con cui tu puoi interagire esiste e quello con cui non puoi interagire non esiste.

È il digitale che permette vieppiù questa interattività? Come si passa dall’informazione “diegetica” a quella “transdiegetica”?

Con la trasformazione tecnologica abbiamo la possibilità di avere una combinazione dei due meccanismi, di interno ed esterno, in versione, appunto, “transdiegetica”. Il digitale ci permette di fare questo lavoro di dentro-fuori in versione dinamica e dialettica, lo si può usare come se da dentro si fosse fuori o da fuori si fosse dentro. Questo è fondamentale per capire il metaverso.

Nel metaverso passiamo da dentro a fuori e gestiamo noi la trasformazione dell'informazione che da fuori entra dentro o da dentro esce, perché siamo noi a interagire con questo mondo come fossimo non soltanto spettatori, ma anche attori dentro il film. É quello che avviene nei giochi.

Il genere di tecnologia che ci circonda è di tipo transdiegetico e ci permette di avere il gioco dentro-fuori attraverso l'interazione che noi abbiamo con queste realtà immaginate, soprattutto il metaverso, che non è più uno scenario fisso, ma è nelle mani di chi si sta operando. Se io, per esempio, ho un'informazione del tutto legata alla mia attività cardiovascolare e la voglio modificare, posso andare a correre e migliorare i dati cardiovascolari, che sono di fronte a me in versione interattiva, in modo che il mio comportamento modifichi i dati su di me. Ecco, questo è quello che possiamo capire in termini di transdiegetico, cioè una trasformazione di tipo interattivo dei dati che sono nella storia che stiamo raccontando e che, internamente ed esternamente, vengono trasformati dal nostro agire sul mondo. Ricordiamo le tre logiche, quelle che dicevamo: il mondo come sta, come ci siamo arrivati; il mondo come sta e come resta in equilibrio; e il mondo come lo disegniamo. Ecco, le nuove tecnologie tendono molto di più a disegnare il mondo, cioè a costruirlo e quindi a renderci interattivi in versione transdiegetica.

Con l’innovazione digitale siamo passati dalla prospettiva di chi interpreta il mondo a quella di chi il mondo lo crea?

Pensiamo alla vecchia metafora galileiana che dice: il mondo è come un libro scritto in simboli matematici che noi dobbiamo leggere. La lettura del mondo in versione galileiana è simile a quanto teorizzano Kant e Hegel: cioè, il mondo è dato, è scritto in simboli matematici come fosse un libro, e il compito di chi oggi lo deve interpretare è quello del lettore. Noi, però, attraverso queste scienze della costruzione (come, soprattutto, è oggi l'informatica) stiamo creando nuove pagine matematiche di questo libro. Mentre in passato abbiamo guardato soprattutto al mondo della conoscenza e a quello scientifico come mondi che rappresentavano la realtà, oggi, abbiamo a che fare con le scienze poietiche, cioè quelle che costruiscono il mondo, (economia, informatica, giurisprudenza, architettura), che studiano il loro oggetto per costruirlo e modificarlo, non semplicemente per osservarlo e capirlo come se fosse già dato. Oggi, alla luce della rivoluzione digitale, è molto più intuitivo pensare che qualcosa esista proprio perché possiamo interagire con esso. Essere vuol dire essere interagibile. Questo richiede che si cambi la nostra ontologia, il modo di interpretare il mondo.

La rivoluzione digitale, quindi, è anzitutto una rivoluzione filosofica?

Senza dubbio. È necessario passare da un approccio mimetico alla realtà, che cerca di capire quello che c'è, a uno molto più poliedrico, che cerca cioè di costruire quello che non c'è o di cambiare quello che già c'è, ma che non va nella direzione giusta. Oggi abbiamo bisogno di una filosofia dell'informazione che studi come fare un design concettuale all'altezza dei nostri tempi. Non serve più una filosofia per la descrizione della realtà, ma serve, invece, una filosofia della implementazione del cambiamento in meglio della realtà: l'etica, la filosofia politica, la filosofia che ha a che fare con le scienze sociali, con altre discipline classiche come l’epistemologia, la metafisica o l'ontologia. Ci vuole uno spostamento verso una versione molto più pragmatica e molto meno teoretica del pensiero filosofico, e ciò non perché l'astrazione non sia fondamentale, ma perché è il fine per il quale questa astrazione è stata sviluppata che è cambiato, l’obiettivo non è più quello di capire come stanno le cose, ma di capire come gestirle, come cambiarle e come migliorarle.

 

Credits Copertina: Julien Tromeur su Unsplash