01.05.2023 Ginevra Leganza

Le nuove maschere. Il teatro interattivo, l'onlife, la scuola di oggi

Gli spettatori come parte attiva dello spettacolo. La scuola, i giovani, il rapporto con il device. Matteo Angius, docente liceale di filosofia, attore, organizzatore e producer del festival Short Theatre di Roma, restituisce uno sguardo sulle nuove forme di interazione e spiega in che modo il teatro possa aiutare i più giovani, generazione di transizione.

Lei lavora a stretto contatto con i ragazzi, fra il teatro e l’insegnamento. Si tratta di due mondi lontanissimi o più vicini di quanto non crediamo?

Io ho studiato filosofia, vengo dal teatro e, a dire il vero, ho iniziato a insegnare solo due anni fa, a 42 anni, quando durante il lockdown ho conseguito i crediti formativi. Ho lavorato in centri di formazione professionale e in alcuni istituti paritari, riscontrando le differenze e fugando molti pregiudizi. Oggi insegno e organizzo un festival, ma ho smesso di fare l’attore. Teatro e insegnamento sono più simili di quanto non pensiamo, è vero. Soprattutto per l’insegnante, essere in classe vuol dire essere attivi, gestire delle situazioni e degli spazi, evitando la frontalità da palco alto… E dunque posizionandosi non in cattedra: piuttosto muovendosi nell’ambiente. Sono tutti aspetti, questi, che ritrovo nel mestiere attoriale. Negli anni Duemila facevo tanti spettacoli interattivi, diversi dall’idea comune di teatro.

Qual è la sua idea di teatro?

È l’idea del teatro come assemblea pubblica. Per questo il teatro si è dovuto reinventare in pandemia. Durante il Covid lavoravo al Teatro di Roma che ha messo in piedi un progetto radiofonico per mantenere il teatro nella sua dimensione pubblica. Lo ha fatto attraverso un progetto radiofonico che riprendeva degli spettacoli.

Lei crede in un teatro che renda lo spettatore “attivo”?

Io credo in un teatro partecipativo che condivide il lavoro con associazioni e comunità. E poi credo nel teatro interattivo. Il progetto interattivo è relazionale. Si fonda sull’idea che la gente nel pubblico possa fare qualcosa attivamente. Per questo si lasciano spazio e tempo per degli interventi che non siano eseguiti secondo una “legge”, un percorso standard, ma attraverso uno scambio di sensibilità con lo spettatore. Direi che il teatro interattivo è un’improvvisazione in ascolto. Una selezione ricettiva di quello che sta succedendo, non una produzione testuale.

I nostri sono anni in cui si annunciano nuove forme di interattività. Pensiamo al Metaverso. In quest’esplosione di novità, il teatro resiste. Perché?

Il teatro è eterno perché è marginale. Ha una forma di resistenza rispetto al digitale e rispetto al metaverso. Certamente oggi è un contenuto relegato a una nicchia. Ma nel suo essere minoritario, è resistente. Quanto alla sua marginalità, c’è da dire che quindici anni fa le scuole di teatro erano assediate perché c’era l’idea che poi, facendo cinema, si potesse diventare famosi. Ora sono cambiate le forme per cui si pensa di poter diventare famosi. I ragazzi e le ragazze si avvicinano all’idea di diventare influencer, e quindi al virtuale.

Qual è stato il cambiamento che ha privato il teatro della sua centralità?

All’origine del teatro c’è l’idea che le cose debbano avere un peso etico nella comunità. Il teatro antico aveva una direzione: voleva dire qualcosa. L’immagine di un dramma produceva un racconto. Mentre in classe, oggi, ti accorgi che il telefono è monopolizzante. Ed è un’appendice. Il rapporto col dispositivo è un rapporto fisico. Se lo si priva del telefono, il ragazzo può impazzire. E questo è un dato di realtà che dobbiamo accettare. Anziché contrapporre polemicamente fisico e digitale, off e online, dovremmo pensare a una sostanza terza che metta insieme virtuale e reale. Anche la sfida al virtuale è una sfida a perdere. A parer mio si può solo puntare a un terzo stato. Con un suo valore e un’eticità. Ma non a un confronto. Altrimenti ci si allontana dalla complessità del reale, si porta la maschera di chi pone un conflitto generazionale, accusando i ragazzi di un uso smodato del telefono mentre invece siamo sempre col cellulare anche noi.

Cos’è una maschera?

Per me la maschera è il viso. Credo che senza maschera, comunque, non ci sarebbe niente. Anche per questo credo che per i ragazzi e le ragazze fare uno spettacolo – e cioè stare nei panni degli altri – faccia bene. L’idea di lavorare su precisi momenti storici porta all’assunzione diretta di una citazione. Il teatro insegna dove inizia e dove finisce una cosa da dire, una citazione, e quindi l’idea che se non si ha niente da dire sia meglio tacere. L’opposto di tutto questo è la confusione. Spesso causata dal telefono.

I nuovi dispositivi hanno avuto un impatto sulla fisicità dei più giovani?

La generazione Z ha un problema con il corpo. Sicuramente spostare tutto sul piano virtuale toglie sensibilità al fisico. È uno dei motivi per cui a scuola ci si accorge che la memoria è in una situazione difficile. Anche se è complesso capire se si tratti di memoria o della distrazione da tutto. Io personalmente non distinguo bene. Ad ogni modo, ritengo che se ogni dubbio può essere sciolto oggi ricorrendo al telefono, più della memoria sia fondamentale la costruzione di un pensiero critico. Saper argomentare è importante. Magari anche a partire dagli appunti sul tablet. Perché la memoria la si recupera agganciandola a qualcosa di concreto, di individuale, personale e proprio.